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Seconda parte intervista a Loris Seligardi di Amplifon – Il lato umano della tecnologia

In un viaggio tra Cina e Italia, Loris riflette sul lato umano della tecnologia, dove ascolto, empatia e resilienza diventano chiavi di successo per guidare team globali. Con l’arrivo dell’AI, il ruolo dell’IT evolve: meno tecnico, più strategico e profondamente umano.

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Seconda parte intervista a Loris Seligardi di Amplifon – Il lato umano della tecnologia

In un viaggio tra Cina e Italia, Loris riflette sul lato umano della tecnologia, dove ascolto, empatia e resilienza diventano chiavi di successo per guidare team globali. Con l’arrivo dell’AI, il ruolo dell’IT evolve: meno tecnico, più strategico e profondamente umano.

Quali qualità personali ti aiutano di più nel tuo ruolo?
In un ruolo come il mio, la competenza tecnica è solo una parte dell’equazione. Quello che fa davvero la differenza, ogni giorno, è la capacità di ascoltare, capire le persone e mettersi nei loro panni. Credo che una delle qualità che più mi aiutano sia la curiosità: verso le tecnologie, certo, ma soprattutto verso il punto di vista degli altri. Mi piace farmi spiegare come funziona un processo dal punto vendita in Cina o da un controller in Italia, perché è solo così che riesco a costruire soluzioni che abbiano senso e parlino la lingua del business.
Un’altra qualità che cerco di coltivare è la resilienza, intesa non come resistenza passiva, ma come capacità di adattamento e di apprendimento continuo. I progetti cambiano, le priorità si spostano, gli ostacoli arrivano quando meno te li aspetti. Rimanere lucidi, capire quando è il momento di accelerare e quando, invece, di fermarsi a riflettere, si costruisce con l’esperienza.
E poi, direi, la capacità di mediazione. Il mio ruolo spesso è quello di creare ponti: tra IT e business, tra centrale e paese, tra visione e operatività. E per farlo servono empatia, chiarezza e anche una certa dose di diplomazia.
Come gestisci lo stress, i conflitti o i momenti critici in progetti complessi come questo?
Lo stress fa parte del mestiere, specialmente quando si lavora su progetti internazionali con fusi orari sfalsati, stakeholder esigenti e tecnologie che, ogni tanto, non funzionano come dovrebbero.
La prima cosa che cerco di fare è non viverlo da solo. Ho imparato che condividere le difficoltà con il team, anche semplicemente dicendo “ragazzi, questo punto è critico, troviamo insieme una via”, aiuta a scaricare la pressione e spesso porta a soluzioni migliori. Il senso di squadra, per me, è la prima valvola di sfogo.
Poi c’è un aspetto più personale: cerco di ritagliarmi piccoli spazi di decompressione, anche durante le giornate più intense. A volte basta una passeggiata, un’ora senza notifiche o una chiacchierata informale per rimettere le cose in prospettiva.
Infine, nei conflitti – che inevitabilmente emergono, specie quando ci sono culture e priorità diverse – cerco sempre di tornare al “perché” condiviso. Quando riporti la discussione all’obiettivo comune, spesso si abbassano i toni e si riallineano le energie.
Hai un aneddoto o un momento difficile che ti ha colpito particolarmente durante questo progetto in Cina?
Uno dei momenti che ricordo con più nitidezza non è stato legato a una crisi tecnica, ma a una vera e propria svolta di comprensione tra team. Dopo settimane di workshop, confronti e chiarimenti sul nuovo modello operativo e sul tema del transfer price, percepivo ancora una certa resistenza da parte del team locale, soprattutto lato amministrazione e finance.
Si temeva che l’intervento della corporate, con i suoi fornitori globali e le sue regole di pricing, penalizzasse la filiale cinese, riducendone l’autonomia e incidendo negativamente sul profit & loss locale. Per quanto ne avessimo già parlato in dettaglio, sembrava che mancasse ancora qualcosa per far scattare davvero la comprensione.
Poi, durante un incontro particolarmente acceso, il direttore amministrativo cinese – una persona molto attenta e rigorosa – si è fermato un attimo e ha detto: “So, actually… we are gaining access to better prices and branded products, and this can help us grow. Not lose.”
In quel momento ho capito che il messaggio era finalmente passato. Non si trattava di togliere qualcosa alla consociata ma di abilitare il team cinese a fare un salto di qualità, beneficiando della forza negoziale del gruppo e di un’offerta più solida e riconoscibile sul mercato.
Non solo: l’accesso a prodotti brandizzati Amplifon, integrati con servizi e app digitali, avrebbe permesso di alzare i volumi e migliorare i margini, potenzialmente anche i prezzi medi di vendita. Era un punto di svolta, perché da lì il dialogo è cambiato: da “cosa ci state imponendo” a “come possiamo farlo funzionare insieme”.
Per me è stato un promemoria potente: le trasformazioni funzionano solo quando diventano condivise. E a volte serve pazienza, ascolto e il momento giusto perché tutto si allinei.
Capitolo Quattro: AI ed il futuro del ruolo dei professionisti IT
Come sta impattando l’intelligenza artificiale nel mondo ERP e nel tuo lavoro quotidiano?
L’intelligenza artificiale sta entrando nel mondo ERP in punta di piedi, ma con un potenziale enorme. Oggi la vediamo soprattutto in forma di automazioni intelligenti, suggerimenti predittivi, classificazioni automatiche e analisi avanzate dei dati. Non è ancora una rivoluzione totale ma è come se stessimo assistendo ai primi passi di qualcosa che, a breve, cambierà radicalmente le regole del gioco.
Nel mio lavoro quotidiano, l’impatto si nota sempre di più. In Amplifon, abbiamo già introdotto alcune automazioni intelligenti che stanno facendo la differenza. Un esempio concreto è il riconoscimento automatico delle fatture per gli acquisti indiretti: attraverso algoritmi di OCR (Optical Character Recognition) e AI, le fatture vengono lette, interpretate e classificate automaticamente. Un tempo era un’attività manuale, soggetta a errori e rallentamenti; oggi è fluida, tracciata e più efficiente.
Un altro esempio è la IDR – Intelligent Document Recognition: una tecnologia che combina AI e machine learning per estrarre in modo intelligente le informazioni rilevanti da documenti strutturati e non, come moduli d’ordine, bolle di accompagnamento o contratti. Questo ci permette di automatizzare flussi che prima richiedevano il controllo umano, riga per riga.
A questi strumenti si affianca l’utilizzo di RPA – Robotic Process Automation: una tecnologia che simula le azioni di un utente umano, ma in modo più veloce e senza interruzioni. In pratica, creiamo dei “bot” software che eseguono attività ripetitive su sistemi diversi, come estrarre dati, confrontarli, popolare schermate ERP o inviare notifiche. La RPA ci ha aiutato, ad esempio, a gestire flussi di controllo qualità, a riconciliare dati tra sistemi legacy e piattaforme cloud, e a garantire coerenza nei processi di onboarding.
Tutto questo alleggerisce il lavoro delle persone, libera tempo, riduce l’errore umano e ci permette di concentrarci su ciò che davvero richiede attenzione e pensiero critico.
È un cambio di paradigma: si passa dalla reazione alla previsione, dall’inserimento dati alla loro valorizzazione. Per chi lavora con i sistemi, è una spinta a non fermarsi alla tecnica ma andare oltre e capire il valore che ogni automazione può generare per il business.
C’è entusiasmo o preoccupazione nei team con cui lavori rispetto all’adozione dell’AI?
Direi entrambi. Da una parte c’è tanta curiosità, soprattutto tra i colleghi più giovani o quelli più esposti al mondo data & analytics. Dall’altra, c’è una sottile preoccupazione, legata all’idea che l’AI possa in qualche modo “sostituire” ruoli, competenze o addirittura interi team. Quello che bisogna cercare di fare è abbassare l’ansia e alzare la consapevolezza. L’AI non è un nemico, ma un alleato. Ma perché lo diventi davvero, bisogna conoscerla, testarla, integrarla nei processi reali. È per questo che promuoviamo sperimentazioni concrete: piccole prove di concetto, casi d’uso mirati, con un forte coinvolgimento dei team funzionali.
Solo così si passa dalla paura all’entusiasmo: quando le persone toccano con mano che l’AI non è lì per sostituirli, ma per amplificare il loro impatto. Che può aiutarli a concentrarsi su ciò che conta davvero: prendere decisioni migliori e ridurre errori e frustrazioni.
Secondo te, l’AI potrà davvero cambiare il ruolo del CIO e dei team IT nei prossimi anni?
Assolutamente sì, e in parte lo sta già facendo. Il ruolo del CIO non sarà più solo quello del “custode dei sistemi” ma sempre più quello del catalizzatore di innovazione. L’AI spingerà i team IT a uscire dal perimetro tradizionale per diventare veri partner strategici del business. Questo richiederà nuove competenze, certo, ma anche un cambio di atteggiamento: meno controllo, più collaborazione. Meno focus sulla tecnologia in sé, più sul valore che genera. Il CIO dovrà saper parlare il linguaggio dei dati, della sostenibilità, dell’esperienza utente. Dovrà costruire team ibridi, capaci di integrare competenze classiche con skill emergenti come data science, prompt engineering, design dei flussi intelligenti.
Credo anche che cambierà il nostro modo di prendere decisioni: sempre più supportato da insight generati in tempo reale, da sistemi che imparano, che si adattano. Questo non riduce il ruolo umano, anzi, lo rende ancora più importante. L’AI può indicare una direzione ma serve l’intuito, il contesto, la responsabilità per scegliere la direzione giusta.
Il futuro dell’IT non sarà solo tecnologico. Sarà, più che mai, umano.
Capitolo Cinque: Lezioni apprese e orizzonti futuri
Cosa ti ha insegnato questo progetto a livello umano e professionale?
A livello professionale, questo progetto ha confermato quanto sia fondamentale costruire ponti tra mondi apparentemente lontani. Non parlo solo di tecnologie o di fusi orari ma di mentalità, priorità e culture aziendali diverse. Lavorare tra Italia e Cina mi ha messo davanti a una verità semplice ma potente: la tecnologia funziona solo quando riesce a mediare i bisogni di chi la usa, non solo quando è “corretta” da un punto di vista tecnico.
A livello umano, ho imparato – o forse riscoperto – il valore dell’ascolto. In un contesto complesso come questo, con mille variabili e pressioni da gestire, la tentazione è spesso quella di accelerare, decidere in fretta, semplificare. E, invece, a volte serve fermarsi, ascoltare le resistenze, leggere tra le righe, dare tempo alle persone di metabolizzare. È lì che si costruisce la fiducia vera.
E poi c’è una lezione meno visibile, ma forse la più importante: accettare che non si può controllare tutto. Un progetto internazionale ti obbliga a delegare, a fidarti dei tuoi team, ad accettare l’imprevedibilità e a reagire con flessibilità. In un certo senso, questo mi ha aiutato a essere un leader più maturo e meno “architetto”, più “allenatore”.
Quali sono le competenze più importanti per chi vuole lavorare su progetti IT internazionali oggi?
Le competenze tecniche sono il punto di partenza ma, da sole, non bastano. Se dovessi indicarne tre che oggi fanno davvero la differenza direi:

  • Capacità di traduzione: bisogna saper parlare più lingue, intese come capacità di tradurre un’esigenza di business in un requisito tecnico e viceversa. Chi sa fare da “ponte” tra IT e funzione, tra HQ e Paese, tra stakeholder e delivery team diventa insostituibile.
  • Sensibilità culturale: lavorare su progetti globali richiede la capacità di leggere i contesti locali, di capire che ciò che funziona in Italia potrebbe essere inapplicabile in Cina o negli Stati Uniti. Serve rispetto, flessibilità, e a volte la capacità di mediare soluzioni ibride.
  • Gestione del cambiamento: i progetti internazionali non sono solo deployment di tecnologia ma processi profondi di trasformazione. Chi li guida deve saper gestire la resistenza, comunicare il “perché”, accompagnare le persone nel cambiamento. È una competenza che unisce psicologia, leadership e organizzazione.


Che consiglio daresti a un giovane professionista che vuole un giorno guidare progetti complessi come il tuo? 

Il consiglio più sincero che posso dare è: inizia dalle persone, non dai sistemi. Studia, esplora la tecnologia, sii curioso ma ricordati sempre che il valore di ciò che implementi dipende da come migliora la vita di chi lo usa.
Non avere paura di sporcarti le mani: entra nei dettagli, segui le operation, ascolta gli utenti. È lì che capirai come funziona davvero un’azienda. I grandi progetti non si governano solo dall’alto: si guidano meglio quando si conosce bene il campo.
E soprattutto: non aspettare il momento perfetto per sentirti “pronto”. Nessuno lo è davvero. Impara a fidarti del tuo intuito, a scegliere persone migliori di te in qualcosa, a circondarti di chi ti sfida in modo costruttivo. La complessità non va eliminata, va accettata e gestita.
Essere leader in IT oggi significa tenere insieme futuro e presente, dati e persone, visione e realismo. Se ti appassiona costruire cose che durano e cambiano davvero il modo in cui si lavora, sei sulla strada giusta.

Come immagini il ruolo dell’IT tra dieci anni?
Credo che tra dieci anni il ruolo dell’IT sarà ancora più ibrido e pervasivo. La distinzione tra “IT” e “business” tenderà a scomparire: non ci sarà più un reparto che “serve” gli altri ma una rete di competenze trasversali che co-progettano insieme soluzioni digitali.
L’IT non sarà più solo un abilitatore ma una leva strategica per guidare la crescita, entrare in nuovi mercati, gestire la complessità globale. Le figure IT dovranno saper parlare il linguaggio dei dati, dell’AI, della sostenibilità, insieme a quello delle operations, della compliance, del customer journey. Non basterà sapere “come funziona un sistema”, bisognerà capire perché lo si implementa, quale valore crea e come evolve nel tempo.

Allo stesso tempo, l’IT dovrà mantenere un presidio forte sui temi di etica, sicurezza, governance. Più la tecnologia diventa intelligente, più aumenta il bisogno di persone in grado di porre domande giuste, oltre che dare risposte tecniche.
In questo scenario, vedo le persone IT del futuro come orchestratori, connettori di intelligenze, capaci di tenere insieme soluzioni decentralizzate, ecosistemi globali, automazioni autonome e una domanda crescente di personalizzazione.
E forse il paradosso è proprio questo: più la tecnologia avanzerà, più sarà importante la componente umana nel guidarla.

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